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sabato 19 aprile 2008

La sinistra è fuori dal Parlamento. I meglio comunisti...

Ora che la sinistra è fuori dal Parlamento tutti a dire che è una storia finita. Ma quale storia? Dovendo proprio parlare di compagni, SDM si diverte di più con quelli di ieri. Altra pasta.

“Mettetevi in testa che questo non è un Parlamento borghese che i deputati proletari devono combattere…”. (Discorso di Palmiro Togliatti ai parlamentari del Pci nel dopoguerra).

(Stefano Di Michele - Il Foglio) E adesso, chi a complimentarsi e chi a dolersi – con inevitabile nuovo passo verso un sempre più innocuo modernariato. Dunque: i comunisti, signora mia, i comunisti oddio non ci sono più… Dissolti tra le urne, con gli operai passati dalla gloria della bandiera rossa alla mestizia del fazzoletto verde, mentre il grottesco si fa sconfortante barricata – “ci siamo occupati troppo di omosessuali e poco di operai”: senti che razza di giustificazioni – e una stramba ultima deriva verso il nulla. E’ tutto un lamento – dagli editoriali del Corriere agli opinionisti di Casini – tutto un condolersi. I comunisti che non sono più in Parlamento: mamma, e adesso? Giusto sui siti berlusconiani si trova una certa becera soddisfazione – “Silvio, sei riuscito a fare quello che gli Usa hanno provato a fare per cinquant’anni: fuori i comunisti dal Parlamento italiano”: eroico. Tanta la partecipazione allo strazio politico bertinottiano, tanti i complimenti allo sconfitto, che lo stesso presidente della Camera, mentre il suo partito precipitava dentro il pozzo aperto dalle urne, con un sorriso mesto sottolineava: “Quando uno è defunto riceve molte lodi…”. Del resto, fatica inutile e impegno sprecato. A dirla tutta – e molti lo dicono – i comunisti in quell’aula non c’erano più già da anni e anni. Forse da venti, forse dal tempo della svolta occhettiana, forse da qualche anno dopo e forse persino da più di vent’anni. Ma quelli che erano i deputati del glorioso Pci – l’originale accasato a Botteghe Oscure – quelli “tutti presenti senza eccezione alcuna”, quelli che furono togliattiani e berlingueriani, i severi funzionari e gli appassionati latinisti, quelli scomunicati per davvero, con il pacco dei giornali sottobraccio e l’Unità sopra a tutti, insomma: i comunisti come tradizione e buonsenso volevano, beh, quelli mancano da un pezzo… Il resto è stato per quasi quindici anni divertente parapiglia – il Monte Athos, la quasi rissa ai cessi parlamentari tra un’intelligente trans e una turbata forzista, i fischietti suonanti in aula, le canne minacciate in cortile, i sottosegretari in piazza – forse anarchico socialismo, certo dibattito perenne, comunque e sempre elevata convegnistica. I comunisti delle Frattocchie – quelli che a volte fanno ancora drizzare per la paura l’intero apparato tricologico del Cavaliere – purtroppo erano già via da un bel pezzo.
Diciamo, i meglio comunisti: il classico, il dop e il doc. Tra i compagni oggigiorno accasati nello Slow food si potrebbe dire: come le uova di caviale rispetto a quelle di lombo. Altro tempo, altra vita, altra storia. Per la quale è possibile agevolmente rintracciare qualche struggimento, un po’ come lo stupore che prende quando succede di tornare nel proprio paese dopo tanto tempo e dopo aver a lungo cercato di fuggirne. Così erano? Così eravamo? In fondo, mica così male. A Montecitorio, i deputati comunisti erano un’ordinata falange, disciplinatamente votati alla causa. Che magari, per qualche ingenuità linguistica potevano incorrere in curiose gaffe, ma sempre con il chiaro profilo della lotta di classe all’orizzonte. Così, negli anni Sessanta, il compagno onorevole Teodoro Bigi, da Reggio Emilia, invitò con forza il governo a prendere provvedimenti a favore dell’industria dei salumi presente in zona, prima che le contadine stremate fossero costrette ad andare in città “a vendersi il culatello in piazza”. E non meno fervida di prospettive politiche e di equivoci lessicali contingenti – stando al resoconto contenuto in “Scusatemi ho il patè d’animo”, di Guido Quaranta – risultò l’intervento dell’onorevole Teresa Noce, che con durezza denunciò l’insensibilità sociale dei governi democristiani, e in aula preannunciò che il Pci avrebbe “raccolto i bisogni della gente”, li avrebbe sintetizzati politicamente “in una Carta” e “portati a Montecitorio”. Ogni equivoco fu poi chiarito. Il compagno che diventava onorevole – e ne ha dato splendida testimonianza il compagno Peppone diventato senatore nell’apposito film – viveva innanzi tutto un prolungamento della sua militanza. Non a caso, e per decenni, fino all’inizio della dissoluzione degli anni Ottanta, ben più dell’onorevole contava il segretario di federazione, e persino Giorgio Napolitano, quando fu eletto a capo di quella di Napoli, lasciò lo scranno di Montecitorio. L’obbedienza, per il deputato del Pci, era una qualità apprezzata e una virtù richiesta. Miriam Mafai, che di Giancarlo Pajetta fu a lungo compagna, nel suo libro “Botteghe Oscure, addio” ha raccontato quello che successe ad Aldo Natoli, deputato alla sua prima legislatura, nel ’56, quando l’Urss invase l’Ungheria: “Venne chiamato da Giancarlo Pajetta che gli chiese di tenere, alla Camera, un discorso a sostegno dell’intervento armato sovietico. Natoli, che aveva intelligenza e carattere, rifiutò. I due stavano discutendo, le voci si sentivano fin nel corridoio. All’improvviso nella stanza arrivò, furibondo, Giorgio Amendola che, rivolgendosi a Natoli, gridò: ‘Sei un traditore! Hai sbagliato partito! Dovevi iscriverti al Partito liberale!’. Natoli uscì sbattendo la porta. E in aula il discorso a difesa dell’intervento sovietico venne pronunciato da Giancarlo Pajetta”.
La disciplina, virtù per eccellenza rivoluzionaria nel Pci togliattiano, tra i comunisti parlamentari era pratica sacra e indiscutibile. Quando, in qualche pagina interna dell’Unità, come è successo per anni e anni, compariva il piccolo annuncio che tutti i parlamentari, “senza eccezione alcuna”, erano tenuti alla presenza in aula, senza eccezione alcuna quelli si presentavano. Rammenta Emanuele Macaluso, che dell’Unità è stato direttore, del Pci dirigente, deputato dal ’63 al ’76, senatore dal ’76 al ’92: “Quando nell’annuncio c’era scritto ‘senza eccezione’, significava che tutti i deputati dovevano presentarsi. Quando c’era scritto ‘senza eccezione alcuna’, voleva dire che anche i membri della direzione del partito erano convocati”. Non essendo un parlamento borghese da conquistare, né un bivacco per bande rivoluzionarie, i comunisti togliattiani mostrarono subito una considerazione quasi vicino alla sacralità per l’aula parlamentare. “C’era un assoluto rispetto per quelle regole – sostiene Macaluso – Togliatti, da presidente del gruppo, era attentissimo alle forme, vestiva sempre di blu, non transigeva sulla disciplina. Nella sua concezione il Parlamento non era una tribuna di propaganda, ma un luogo di elaborazione politica e legislativa”. Ecco, questa faccenda delle forme, e persino del vestiario, per il capo comunista ebbe da subito la sua importanza. Raccontano che guardasse con un certo disagio la cattivissima ineleganza (look, a quel tempo, era parola che nessuno pronunciava e nemmeno sospettava) di molti compagni appena eletti, subito dopo la guerra. A un importante dirigente, che continuava a ostentare come un cimelio il vecchio cappotto che aveva usato in montagna durante la lotta partigiana, un giorno chiese tra l’ironico e l’irritato: “Facci sapere, compagno, se per caso il partito può fare qualcosa per procurarti un nuovo paltò…”. A quelli che si atteggiavano a rivoluzionari nell’aula di Montecitorio, ripeteva: “Questo è un Parlamento conquistato da tutti, in primo luogo da noi; le distinzioni non valgono”. Molti eletti comunisti, in realtà, alla fine degli anni Quaranta non dovevano sembrare granché al loro capo. Qualcosa magari era migliorato, tanto che Togliatti, osservando alcune delle nuove deputate notò compiaciuto: “Finalmente abbiamo delle compagne che non portano il 41 di scarpe” – ma per il resto una sola desolazione. Fu proprio parlando del suo abbigliamento – blu scuro a pois con un colletto di merletto bianco – e indicandola come modello agli altri parlamentari, che fece il suo primo complimento alla Iotti: “La giovane compagna di Reggio Emilia ha un vestito adeguato. Imparate da lei”. Forse, il modo di portare le cose, più che le cose stesse. “Ricordo – ha rievocato Nilde Iotti – che andavo in giro con una vecchia camicia di flanella di mio padre, rivoltata, ritinta con i coloranti Sutter che usavano allora, ridotta ad abito e portata non so quanti anni”.
C’era una preoccupazione: l’onorevole comunista non doveva marcare troppo la sua condizione di compagno economicamente privilegiato. “E’ vero che metà dello stipendio andava al partito. Ma chi non era sposato pagava anche di più, fino al 60 per cento – spiega Macaluso –. Una forma di autofinanziamento, ma anche un modo di essere del parlamentare, che non doveva avere una disponibilità di denaro molto superiore a quella del funzionario di partito. Non doveva collocarsi economicamente troppo in alto”. Ricorda ridendo Miriam Mafai: “C’era un deputato siciliano che pose al partito un problema: lui non aveva una famiglia né, ovviamente, a quei tempi, dei figli. Ma aveva un grosso cane. ‘Mangia più di un bambino’, tentò di impietosire l’amministrazione del partito. Inutilmente”. I deputati comunisti, soprattutto quelli delle prime legislature, si accampavano in alberghi modesti, due per camera, in case di compagni. “Quando arrivai a Roma – il racconto di Nilde Iotti – il gruppo parlamentare indicò un certo numero di alberghi dove alloggiare. Io, insieme al mio compagno di Reggio Emilia Silvio Fantuzzi, scelsi il Santa Chiara, un vecchio albergo dietro al Pantheon, vicinissimo a Montecitorio”. C’erano poi le case dal partito, ovviamente. Come quelle, famosissime, di via Pavia. Erano riservate a funzionari di un certo grado, e alcuni di loro più tardi diventarono parlamentari, da Fernando Di Giulio a Ruggiero Grieco, da Rita Montagnana a Teresa Noce. “Naturalmente – ha scritto la Mafai – nelle case del partito anche i portieri erano iscritti al partito e, a maggior ragione, lo erano le donne di servizio che, se dovevano lavorare nelle famiglie dei compagni della Direzione o della Segreteria, venivano scelte con particolare oculatezza dalle federazioni di provenienza”. Si capisce: questa edificante vita pubblica nascondeva anche scontri interni, lacerazioni, rapporti conflittuali o magari velati rapporti amorosi, che anche quelli, a quel tempo, dovevano passare per il vaglio del partito, visto che “l’amore è una cosa seria, una conquista che si realizzerà a pieno soltanto con la vittoria del socialismo”, argomentava il compagno Edoardo D’Onofrio: il soffio del partito sotto le lenzuola del del militante. Ovviamente, dirigenti e parlamentari erano molto più elastici (per fortuna), nelle loro relazioni amorose, di quanto venisse insegnato ai compagni di base (per sciagura). Non solo Togliatti e la Iotti, ma anche molti altri, compreso Luigi Longo. E fece scandalo Umberto Terracini che, da presidente dell’Assemblea costituente, si presentò a una cerimonia con la “concubina”, la donna con cui felicemente conviveva.
Ma alla fine, il campo specifico di lotta del deputato comunista era l’aula parlamentare. Appunto sacrale, secondo gli insegnamenti togliattiani – e di tutti quelli a seguire – ma che pure vide momenti di forte scontro, contrapposizione, ostruzionismo: come al tempo del Patto atlantico o della “legge truffa” o, infine, della battaglia sul taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi. Liti memorabili come quella del giugno ’48, quando il comunista Fausto Gullo attaccava gli elettori democristiani (“beghine”, “suore sepolte vive”, “paralitici”) e i democristiani, nella persona dell’onorevole Tomba, replicavano sullo stesso tono (“pregiudicato”, “sgualdrina”). Le cronache dicono dell’onorevole Tomba finito in infermeria e di due deputati comunisti soccorsi con il Lysoform. Ma un parapiglia come al tempo della “legge truffa” non si vide mai più in seguito. Pietro Secchia voleva che i deputati comunisti abbandonassero l’aula, Togliatti si oppose. Si trattò, secondo Pietro Ingrao, di un “misurato ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e Camera) per circa un lungo semestre” che “appare assurdo e insensato, se non si afferrano il suo combinarsi e prolungarsi nel territorio”. Però in Parlamento. “Il Parlamento stava nel nostro cammino proprio perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere sull’agire dello stato”. E proprio il deputato Ingrao, nell’aula di Montecitorio, fu protagonista del gesto che divenne simbolo di quei mesi di lotta. Mentre la Camera discuteva, lui uscì per via del Tritone. C’erano scontri tra la polizia e i manifestanti comunisti. Ingrao interviene in difesa di un gruppo di dimostranti. “A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa”. Torna a Montecitorio. “In aula stava parlando un compagno: aspettai in Transatlantico che finisse (…) Poi entrai in aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in quella cupa notte romana”. Così, “il dramma parlamentare accendeva nuovamente gli animi nel paese”.
Ma in generale, per fortuna, era tutto più calmo e ordinato. Dai deputati comunisti, rammenta Enzo Roggi, giornalista parlamentare dell’Unità negli anni Sessanta, veniva “un attento grigiore”, la noia dello studio di tutti i trucchi parlamentari, “come si può conoscere la strada di casa”, un “impegno quasi pedagogico” che al peggio poteva produrre interventi in aula come questo, riportato nel libro di Quaranta: “Da un punto di vista concretamente organico, cioè da un punto di vista organicamente concreto, cioè guardando le cose con organica concretezza…”: se non moriva prima di noia, magari la causa del socialismo faceva pure qualche passo avanti. Ma l’onorevole comunista non doveva mai abbassare la guardia. In aula, allora: lì il pubblico confronto, la prova di forza, la possibilità di assestare un colpo (politico) all’avversario. Naturalmente, qualcuno doveva curare, ordinare, tenere d’occhio la faccenda. La questione fu a lungo nelle mani di un parlamentare che è diventato col tempo un vero e proprio mito: il compagno Mario Pochetti da Palombara Sabina, segretario d’aula del gruppo. Un gran tipo, il compagno Pochetti. Così esperto di strategia parlamentare, di trucchi e di regolamenti che una volta, all’inzio degli anni Settanta, Sandro Pertini, presidente della Camera, di fronte a un’aggrovigliata faccenda regolamentare sbottò: “Vediamo di chiedere a Pochetti, che se ne intende di più…”. Nella funzione che il parlamentare svolgeva nel Pci, il ruolo di Pochetti era centrale, come del resto quello di una sua altrettanto risoluta collega della Dc, ricorda Macaluso, “e i democristiani temevano più lei che De Gasperi e Fanfani”. Tra l’aula e il Transatlantico, in certi frangenti, la funzione di Pochetti superava quella del segretario. Una volta fece venire a votare Enrico Berlinguer con la febbre, appena tornato da una viaggio da Mosca. Dopo un lieve ritardo pubblicamente osò una ramanzina al mitico segretario del Pci: “Tu qui dentro sei un deputato come tutti gli altri, e un ritardo va giustificato” – e con il dito gli indicò seccamente l’ingresso dell’aula. Raccontano che ad Alfredo Reichlin, splendido retore ma forse non accanito frequentatore di Montecitorio, disse un giorno: “Compagno, tu sei come Severino Gazzelloni: vieni, fai l’assolo una volta l’anno, prendi il nostro applauso e te ne vai”. Gran cultore del Belli, e dunque pacifico teorico della convinzione “io so’ io, e voi nun siete un cazzo”, con pugno di ferro e granitica organizzazione instradava le truppe comuniste. Una carica monocratica, praticamente sconosciuta all’esterno, E siccome, spiegava Pochetti, “può succedere la qualunque”, dieci deputati comunisti, pescati ogni volta in ordine alfabetico, erano comandati in aula anche di lunedì o di venerdì, quando assolutamente nulla succedeva. “Vigilanza democratica”, era l’accorto mandato. E siccome “la qualunque” può appunto succedere, prima delle ferie il compagno Pochetti saggiamente raccoglieva, su un foglio bianco, la richiesta di convocazione urgente della Camera da parte del gruppo comunista. Richiesta, per dire, di una certa utilità quando il nazista Kappler scappò dal Celio in pieno ferragosto. Una meravigliosa battuta Pochetti la riservò al non giovanissimo capo democristiano Remo Gaspari, che un giorno si presentò in aula con il braccio ingessato: si era infortunato inaugrando con una partita a tennis un campo sportivo al suo paese. Gaspari forse si aspettava un applauso per lo spiccato senso del dovere, invece nel silenzio assoluto si ode la voce di Pochetti: “Suotr, ne ultra crepidam!” (Calzolaio, non andare oltre la scarpa!). Ecco, il latino era largamente praticato nel gruppo comunista, da alti dirigenti fino ai deputati di periferia. E’ rimasto famoso l’urlo di Alessandro Natta contro un parlamentare che si affannava a descrivere “l’aiter della legge”. “Bestia: iter, è latino, bestia!”, urlò il capogruppo comunista. E quello: “Scusate il lepsus…”. Personaggio fondamentale del gruppo del Pci per decenni fu Giancarlo Pajetta, fenomenale battutista. Come quella volta che in aula erano rimasti solo lui (che sbrigava la sua corrispondenza) e un deputato monarchico che parlava. Oltre a un vicepresidente e ad alcuni stenografi. E Pajetta, avviandosi verso l’uscita saluta l’ultimo collega rimasto, che insiste a tirare avanti col discorso: “Poi, quando finisci spegni la luce!”. Tutt’altre storie. Finite chissà come e quanti anni fa. Magari con quel gesto di Nilde Iotti, che con fare imperioso costringe tutti i suoi compagni pidiessini – indecisi e restii a farlo – ad alzarsi per salutare Irene Pivetti, salita sullo scranno più alto al suo posto: la Gran Signora di Montecitorio salutava così la sua Istituzione. Che un giorno, nella direzione del Pci, aveva difeso anche contro Berlinguer. Era il tempo dello scontro sulla scala mobile. Il segretario pose il problema di certe questioni regolamentari sul dibattito in corso, visto che che a volte la presidenza aveva dato ragione al governo. Ricorda Macaluso: “La Iotti si alzò e disse: se volete qui la mia presenza, le questioni della Camera si discutono alla Camera”. Nessuno aprì più bocca, dopo le parole della compagna presidente. Anzi: del presidente. Perché, come la Iotti spiegò, “la presidente sarebbe una forzatura grammaticale non ammessa del resto neppure dalla voce latina da cui deriva…”. Davvero: un altro tempo e un’altra tempra.

Mirafiori ha bocciato l’Arcobaleno: “Pensa solo a froci e zingari, non a noi”.

(Maurizio Pagliassotti - Liberazione) Un partito che pensa solo agli omosessuali e agli zingari, mentre dei lavoratori se ne è sbattuto fino all’altro giorno» E’ il commento lapidario di Luca, quaranta anni, operaio Fiat alle carrozzerie Mirafiori da undici. Tira un vento gelido in corso Settembrini mentre uno sciame di operai entra dalla mitica porta due dentro lo stabilimento metalmeccanico più importante d’Italia.
Pochi metri più in là c’è la cinque, quella nel 1980 fa era chiamata “porta Karl Marx.” Venti giorni fa Franco Giordano era venuto
a volantinare proprio tra questa gente e l’accoglienza era stata fredda ma non rabbiosa, come invece era capitato qualche mese prima ai capi dei sindacati.
La sensazione è che gli operai di Mirafiori abbiano assistito alle elezioni come si assiste alla finale di coppa del mondo tra Brasile e Germania: in qualcosa di interessante sì, ma lontano.

Poi è arrivata il ceffone della disfatta inaspettata della Sinistra Arcobaleno, che ha assunto un valore molto superiore rispetto alla vittoria della destra.
Se venti giorni fa nessuno aveva voglia di parlare ieri invece le lingue erano più sciolte, un profluvio di commenti duri e spietati.

Roberto: «Un partito che difende i ladri (rumeni, ndr) che rubano nelle nostre case, incapace di farci aumentare gli stipendi che sono da anni sempre uguali. Ho votato Lega».
Giovanni: «Batosta necessaria, anche se troppo violenta. Ci speravo che la Sinistra Arcobaleno perdesse duro, ma non così tanto. Io ho votato Pd non per convinzione ma proprio per far perdere Rifondazione. Fino all’ultimo ero indeciso se votare Lega. Mi sembra infatti quest’ultima quella che in questo momento è più vicina ai lavoratori».
Francesco: «Quando parlano alla televisione quelli di sinistra io non capisco un cazzo di quello che dicono. Usano paroloni... la globalizzazione... il movimento... Tutte menate, a noi interessa lo stipendio, vivere un po’ meglio, avere due soldi in più in tasca. Basta. Rifondazione dice che è stata una vittoria aver ritirato le truppe dall’Iraq e io rispondo: e a me cosa ne viene in tasca?».
Roberto: «Ma noi cosa c’entriamo con Pecoraro Scanio? L’ambiente? Sì è importante ma io voglio sentire suonare altre corde, quelle che mi toccano direttamente.
Mi dispiace, sono deluso ma dopo molti anni ci voleva».
Annamaria: «In Fiat hanno votato in massa la destra. Sono degli irresponsabili...venerdì c’era un sacco di gente che sghignazzava sulla vittoria di Berlusconi, diceva che era giunto il momento di far rubare un po’ anche lui... La classe operaia non esiste più, gli operai sono persone il cui unico sogno è cambiare lavoro, fare un po’ di soldi e sbattersene di tutto il resto».
Gianni: «Questa notte non ho dormito. Sono incazzato e deluso. Ho votato Sinistra Arcobaleno e così tanti come me dentro questa fabbrica. Moltissimi che sostengono di essersi astenuti in realtà hanno scelto la Lega. Soprattutto i giovani sono di destra, quando
li sento parlare mi sembra di avere davanti Calderoli».
Il discorso generazionale appare importante. I più anziani sembrano aver preso almeno in considerazione l’ipotesi
di votare Sinistra Arcobaleno, forse per ragioni storiche. I giovani invece paiono essere semplicemente disillusi o di destra. Commenti a caso tra i volti poco più che imberbi che entrano in fabbrica:
«Non me ne frega niente», «Bertinotti veste il cachemire io guadagno mille euro al mese. Una volta ho visto Ferrero arrivare con la Renault 5 tutta scassata. Lui mi piace invece. Sono cose importanti per noi queste...», qualcuno parafrasa anche Trotzkj: “prima distruggere, poi costruire”.
Gli operai con i capelli bianchi sono attoniti, la loro analisi racconta di un mondo operaio che non riconoscono più, arrabbiato con tutti, siano essi padroni o sindacati. «Davanti a questa porta ventotto anni fa volevamo cambiare il lavoro in Italia... Penso che
quello che è successo ieri sia l’ennesimo frutto avvelenato di quella sconfitta».

E per il futuro? Il domani non esiste anche se vi è un diffuso timore che la mancanza della sinistra in parlamento apra le porte alle peggio situazioni: «Veltroni farà l’opposizione? Siamo a posto...»
Riguardo la sinistra e le sue scelte prossime venture mancano i suggerimenti:
gli operai sono preoccupati dal crollo delle vendite di auto in Europa, Fiat compresa. Il destino della sinistra interessa quei pochi iscritti alla Fiom che resistono dentro la fabbrica, gli altri pensano che domani sarà un altro giorno, uguale a ieri.

Grillini e Rutelli. Dopo gli insulti l'idillio. A Roma i gay con la parola d'ordine "No alla destra" regalano la poltrona 'ar cicoria...

Grillini inconterà l'aspirante sindaco questa sera.
(Il Corriere della Sera) Gay e Rutelli. Per la serie, c'eravamo tanto odiati. Ma se Alemanno sindaco non s'ha da fare — irrinunciabile obiettivo per la comunità lgbt romana — ecco che i loro voti sembrano riprendere la via di Canossa (ovvero, direzione Francesco). Così almeno hanno deciso i vertici delle comunità organizzate, Arcigay Roma in primis con il suo presidente Fabrizio Marrazzo e Circolo Mario Mieli. Ma i gay romani seguiranno davvero le loro indicazioni «vota Francesco, vota Francesco»?...

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Assise a Firenze della Sinistra Arcobaleno, Vendola: «Non cerchiamo capri espiatori». Tortorella colto da malore.

(L'Unità) Al Palacongressi di Firenze assemblea dell' associazione per la sinistra unita e plurale alla quale prendono parte, tra gli altri, Giovanni Russo Spena, Paolo Cento, Paolo Ferrero, Gennaro Migliore, Piero Sansonetti e Niki Vendola . Nella grande aula sono confluite da buona parte dell' Italia del nord e del centro circa un migliaio di persone.

Assemblea in piedi e un minuto di applausi per Niki Vendola, presidente della regione Puglia. È necessario «sorvegliare le parole delle prossime ore» essere «cauti» avere «amore e attenzione per questa comunità e consentirle di rialzarsi in piedi», ha esordito Vendola. «Bisogna ripartire da qui - ha detto - dall' analisi della sconfitta. E ci sono due modi: uno che è nella tradizione della peggiore storia sinistra ovvero la ricerca di capri espiatori e colpevoli». A questo, Vendola non vuole «partecipare».

«Anzi- spiega - mi iscrivo alla lista dei colpevoli perchè credo che qualunque dirigente a qualsiasi livello si debba sentire colpevole». «Io - ha proseguito - vorrei partecipare alla discussione sulle cause, bisogna sorvegliare le parole nelle prossime ore, essere cauti, avere cura e amore per questa comunità per consentirle di rialzarsi in piedi».

Il dolore, ha proseguito Vendola nel suo intervento, può essere «una lente di ingrandimento per capire di più e cominciare un altro percorso. Non è vero che chi cade può solo rialzarsi, ci sono anche quelli che si divertono a spezzarsi le gambe e questo io non lo voglio». «Nella società - ha aggiunto - c'è stato un sommovimento straordinario, un cambiamento grande rispetto al quale abbiamo strumenti analitici e strategici asfittici, desueti, poveri e ce la caviamo solo con un pò di sociologia della catastrofe. L'impressione è che il nostro discorso sia sempre un po' artificiale ed esteriore, un discorso di chi non capisce più il territorio del lavoro non per snobismo radical-chic, ma perché quei territori del lavoro hanno subito una trasformazione grande».

Forse, ha concluso Vendola, «noi dovremmo umilmente, piuttosto che parlare di precari, ascoltare i precari. Il punto non è la domanda politica e sociale di cambiamento, il punto è la nostra offerta politica che è apparsa rinsecchita, povera, un'improvvisazione elettorale. Così è apparso l'Arcobaleno». E «a chi chiedeva come è potuto accadere - ha sottolineato Vendola - bastava vedere tutti i commenti della sinistra arcobaleno dopo la disfatta. Era la controprova che la Sinistra Arcobaleno era stata materia gassosa, non c'era dietro un progetto, un convincimento, una storia, qualcosa che entrasse nell'immaginario».

Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, ha annunciato di non essere candidato a segretario di Rifondazione comunista. «Il partito - ha detto - deve fare una discussione e decidere chi deve dirigerlo. Sono il primo responsabile di questa sconfitta e non cerco capri espiatori. Non se ne può più di campagne di stampa in questo senso». Penso che sia assolutamente necessario ripartire dalla discussione collettiva che credo vada allargata nei prossimi giorni: riaprire una discussione politica larga e non sequestrarla negli apparati ristretti». La riorganizzazione del partito «deve riguardare come si valorizzano tutte le militanze che ci sono, di come si ridiventa un punto di riferimento per la gente che soffre». «Il fatto che dentro un partito in cui si apre una discussione - ha aggiunto - ci debba essere una gestione che tenga conto di tutte le opinioni e di tutti i punti di vista è semplicemente un passaggio di democrazia».

Per il capogruppo alla Camera del Prc Gennaro Migliore «sicuramente il gruppo dirigente è dimissionario ed è chiaro che non può essere riproposto da qui al congresso e che il congresso deve essere una fase di discussione vera». «Anticipare questa discussione - ha aggiunto - significherebbe fare del congresso una vuota rappresentazione di ciò che si è compiuto prima. Io penso che la parola debba essere data agli iscritti; per questo non si riparte dagli organismi dirigenti ma si riparte dalla base».

Migliore, rispondendo a chi gli ricordava l'invito di Diliberto a ripartire dal simbolo comunista, ha osservato che «quello che non possiamo fare è tornare sic et simpliciter a Rifondazione pre 1998. Quella è una scadenza che per noi ha segnato un processo di autonomia: nel '98 abbiamo scelto l'autonomia della sinistra rispetto al quadro del governo e abbiamo investito nei movimenti. Diliberto propone di tornare a prima del '98 e non capisco questo cosa c'entri con il percorso di ricostruzione della sinistra».

Momenti di paura per Aldo Tortorella, esponente storico del Pci, che è stato colto da malore subito dopo aver terminato il suo intervento. Scendendo dal palco per tornare a sedersi in platea, l'81enne Tortorella si è sentito male, ed è stato sorretto da due compagni mentre stava per cadere a terra; è stato quindi soccorso sul posto da personale sanitario, ed è tuttora sotto osservazione nei locali del Palacongressi. Secondo quanto appreso, lo storico membro della Resistenza e del Pci, ha sofferto un piccolo problema cardiaco.

Ballottaggio per il Campidoglio. Alemanno: A Roma correremo da soli.

(Notizie Tiscali) Il candidato a sindaco del Pdl, Gianni Alemanno ha annunciato che non vi saranno accordi formali con La Destra di Storace o altri partiti per il ballottaggio. "Abbiamo riflettuto sulla vicenda degli apparentamenti con molta attenzione e abbiamo pensato che rispetto a qualsiasi accordo fosse prioritario un messaggio ai cittadini - ha dichiarato Alemanno nel corso di una conferenza stampa - si cambia la città cambiando il modo di fare politica. Per questo abbiamo deciso di andare soli, procederemo senza accordi formali".

"Appello a tutte le forze politiche" - Alemanno ha spiegato che intende rivolgere un "appello a tutte le forze politiche" e alla coscienza dei cittadini: "Ci rivolgiamo alle coscienze, i cittadini votino secondo coscienza, vogliamo ricomporre il centrodestra e dare un segnale a tutta la citta'". L'ex ministro dell'Agricoltura ha sottolineato ancora che "prima di un apparentamento, serve un chiarimento serio con i cittadini, quando avremo modo di ragionare, ricostruiremo il centrodestra".

"Libertà di coscienza strada migliore" - Poi non ha mancato di rivolgere una stoccata al suo avversario, Francesco Rutelli: "Se facessimo appello alle coscienze degli elettori Rutelli non supererebbe il 10%, per come è stata trasformata la città". L'ex ministro ha definito "la strada migliore" la scelta dell'Udc di lasciare libertà di coscienza ai propri elettori. Per indicare come intende procedere nella campagna elettorale, Alemanno ha annunciato che lunedì, in occasione del Natale di Roma, sarà organizzata una riunione per affrontare il progetto della costruzione del distretto di Roma Capitale; in quest'occasione sarà anche fatto il punto dei compiti della cosiddetta "Commissione Attali" per Roma, che deve individuare i progetti di rilancio della Capitale.

Gay in fuga dall'Arcobaleno.. "Avete difeso i diritti solo a chiacchere".

(Davide Varì - Liberazione) «E perché mai avrei dovuto votare un partito che non è stato capace di portare mezzo risultato a casa e che ha sempre scelto e messo in primo piano la stabilità di un governo che ha sistematicamente ignorato i diritti delle persone omosessuali?». Il più duro è Marco, 37 anni, architetto, gay e compagno di Luca. Marco è uno dei tanti che il 13 e 14 aprile scorso ha scelto di non votare Sinistra arcobaleno. «Sì, non ho votato la sinistra, finora avevo sempre votato Rifondazione ma stavolta ho scelto di punirli per fargli capire che la loro presenza ha un senso ed un significato preciso: difendere i diritti dei più deboli. E non c'è dubbio che noi gay in questo momento siamo tra i più deboli».

Un problema di leadership? «Nessun problema di persone, nessun problema di leadership. Io ho sempre creduto in Bertinotti, nella sua buona fede e nella sua passione. Ma stavolta la buona fede e la passione non bastano più. Avevamo anche un ministro in quel governo, che ci stava a fare?».

Un'idea che riprende bene e rilancia anche Cristina Gramolini di Arcilesbica: «Neanch'io ho votato Sinistra, e anch'io ho deciso di non votarla dopo anni di "fedeltà"». I motivi? «Prima di tutto la grande disillusione per l'atteggiamento e la presenza di Rifondazione nel governo Prodi».

«Una grande delusione politica soprattutto alla luce della modalità della crisi - spiega Paolo da Milano -. Possibile che abbiamo dovuto aspettare i problemi personali di Mastella per far crollare quel governicchio? Possibile che Rifondazione non abbia deciso di uscire impuntandosi, per esempio, sui Dico? Non ne valeva forse la pena? Di certo, se l'avesse fatto, sarebbe stata un'uscita di scena più dignitosa per tutti. Anche per Prodi».

Insomma, un coro di proteste, quasi di risentimento quello che viene dal mondo omosessuale. Un esercito di voti negati proprio per punire il partito che più di ogni altro aveva dato loro tante speranze, tante illusioni. Ma insieme a tanta rabbia si affaccia anche la preoccupazione: «Certo - ammette ancora Cristina Gramolini - ora sono molto preoccupata dell'assenza di Rifondazione in Parlamento, ma se raggiungere il quorum significava proseguire su quella strada, allora è stato meglio non raggiungerlo». «Ricordate la mobilitazione del 20 ottobre? Ecco, noi di Arcilesbica abbiamo deciso di non aderire perché quella convocazione verbale senza alcuna prospettiva pratica non ci convinceva. Si è trattato di un appello solo verbale, verbale come la presenza di Rifondazione al governo».

Un modo in subbuglio quello omosessuale. Un mondo articolato e complesso. Dentro si trova di tutto. E' uno specchio ristretto della società italiana che ha distribuito i proprio voti un po' ovunque. Sempre Paolo, militante dell'Arcigay di Milano - riporta la scelta di molti gay e lesbiche di votare addirittura per la Lega. «Certo, la Lega. Conosco molte persone che hanno votato per Bossi». Nonostante i messaggi così machisti e intolleranti? «Molti pensano che siano solo sparate, trovate di marketing politico per raggiungere la pancia delle persone».

«Il fatto che molti elettori di Rifondazione pensino che la sinistra si occupi solo dei diritti dei gay, dei "froci", trascurando il lavoro o la lotta di classe, fa il paio con la convinzione di molti omosessuali del nord che pensano che la sinistra abbia trascurato sia i diritti dei lavoratori che quelli dei gay». Risultato? «Risultato, quelle persone votano a destra, votano Lega, tanto è uguale». Uguale? «Mi correggo, non è uguale, dal loro punto di vista è meglio votare Lega». Meglio? «A sinistra mi promettono pochi diritti e tante tasse; a destra nessun diritto ma di certo meno tasse. Pensate che i gay non si preoccupino delle tasse? Non pensano a come arrivare alla fine del mese? Non sentono il problema della sicurezza? Non viviamo mica in un mondo a parte, non siamo mica una categoria diversa dalla altre. Forse a qualcuno sarà sfuggito, ma anche le coppie gay e lesbiche vivono il problema di arrivare alla fine del mese. E in tutto questo la sinistra non è riuscita a passare come forza di difesa né dei lavoratori né dei gay». «Quindi, almeno qui a Nord - continua impietoso Paolo - molti di noi hanno scelto Lega e Pdl. Chiaro no?».

Questo per quanto riguarda il Nord. E il Sud? Anche lì la musica non cambia. Giuseppe dell'Associazione Ponti Sospesi, un gruppo di gay credenti che si batte quotidianamente per il diritto ad "esistere" - parla esplicitamente di «rassegnazione». «Molti di noi - ammette - hanno votato Pd decidendo di mettere da parte ogni illusione e ogni aspettativa sul riconoscimento dei diritti. Molti di noi, io compreso, hanno creduto al progetto del Pd, alla possibilità di voltare pagina e di fermare Berlusconi». E la Binetti, e i teodem? «Certo, eravamo assolutamente coscienti del fatto che molte realtà presenti nel Pd non avrebbero mai permesso un avanzamento in termini di diritti, ma per molti di noi, evidentemente, valeva la pena rinunciare a qualcosa». «C'è da dire però che alcuni del nostro gruppo hanno votato a Sinistra. Non tutti hanno messo da parte la battaglia per i diritti e obiettivamente hanno individuato nella Sinistra l'unica realtà politica in grado di rivendicarli. Una scelta politica che è passata proprio attraverso il riconoscimento di questo ruolo».

Anche astenuti però. «Sì, anche tante astensioni. In generale, almeno per quel che riguarda Ponti Sospesi, posso dire che c'è una parte che considera fondamentale e prioritaria la questione dei diritti, e vota di conseguenza, e un parte che la mette nel calderone delle proprie priorità e richieste politiche».

E sull'assenza della Sinistra in Parlamento? «Spero che sia più presente nella società e nella vita quotidiana dei cittadini. In fondo è questo il significato più vero e profondo della politica no?».