Praitano: "A Roma stiamo appoggiando la coraggiosa discesa in campo di Franco Grillini" .
(Dire) Un impegno concreto, senza se e senza ma, e' quello richiesto al candidato premier della Sinistra l'Arcobaleno da Rossana Praitano, presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, in un incontro tra Bertinotti e i rappresentanti del movimento gay-lesbico-trans italiano (Mario Mieli, Arcigay, Arcilesbica e Movimento Identita' Transessuale), riuniti oggi presso la sede del Circolo Mario Mieli.
La storica associazione gay romana, che quest'anno festeggia il venticinquennale dalla sua fondazione, come si legge in una nota, ha, infatti, ospitato per la prima volta nella storia politica italiana un incontro tra un candidato premier e la comunita' glbtq. "Apprezziamo l'apertura della Sinistra l'Arcobaleno nei confronti degli omosessuali- dichiara Praitano- Finalmente questo partito ha messo sullo stesso piano i diritti civili e i diritti sociali. Questa e' la vera novita' a cui guarda con interesse il Mario Mieli ed e' visibile l'impegno nelle proposte che la Sinistra l'Arcobaleno ha messo nel suo programma politico".
Il punto di partenza per la riscossa e il miglioramento della vita di tutti puo' essere proprio il dialogo con Bertinotti, dunque. "Noi abbiamo fiducia in Bertinotti- spiega la presidente del Mario Mieli- e siamo disponibili al dialogo e alla collaborazione. Bertinotti e' l'unico candidato premier che ad oggi si e' prestato a un incontro-confronto con noi. I politici che vogliono rappresentarci devono conoscere da vicino la nostra realta' e ascoltare quello che abbiamo da dire".
Per quanto riguarda il comune di Roma, sostengono dal Circolo, "per i gay e le lesbiche Rutelli non ci da' rassicurazioni e garanzie. Ragion per cui non abbiamo seguito la Sinistra l'Arcobaleno nella sua scelta pro Rutelli e stiamo appoggiando la coraggiosa discesa in campo di Franco Grillini".
sabato 5 aprile 2008
Circolo Mieli e Bertinotti: Insieme per la riscossa...
I gay di sinistra sbaraccano dal Pd. Piomboni presidente dell'Arcigay di Firenze lascia .
(Dire) Il presidente di Arcigay Firenze Francesco Piomboni "Il giglio rosa", eletto capolista alle primarie del Partito Democratico con la lista "A Sinistra per Veltroni" per il colleggio 4 della Toscana, lascia lo schieramento che vuole Veltroni presidente per le prossime elezioni del 13 e 14 aprile.
Il Pd, spiega oggi Piomboni, "e' un partito che mi ha deluso profondamente, cosi' come la lista 'A Sinistra per Veltroni' di Firenze". E' stato usato il nome di Arcigay Firenze- accusa- "finche' poteva far comodo per la campagna elettorale delle primarie, dopodiche', non appena si e' parlato di organizzare iniziative concrete, e non di facciata, in reale favore dei diritti civili e delle coppie omosessuali, in cui venissero prese posizioni chiare e favorevoli in merito al riconoscimento della parita' dei diritti per le persone lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender), tutti hanno cominciato a eclissarsi dietro iniziative-fantasma in cui facevano da padrone, come sempre, solo le parole e mai i fatti". Ora- aggiunge- "non ci sto piu'. Ritengo che speculare su associazioni che si battono per i diritti civili e su persone che sperano in un'Italia migliore sia la cosa peggiore che un partito puo' fare".
Come associazione e come singolo, dice ancora il presidente dell'Arcigay di Firenze che oggi lascia il Partito democratico, "eravamo stati coinvolti dalla lista 'A Sinistra per Veltroni' di Firenze per una serie di iniziative politico-sociali, ma non appena Arcigay Firenze aveva chiarito che 'non firmera' assegni in bianco alla sinistra' (come recitava il titolo di una recente mia intervista sul bollettino 'A sinistra News' (www.goleft.it)), concordando con la 'linea dura' di Arcigay nazionale, per un caso fortuito del destino, come associazione lgbt, siamo stati esclusi da ogni dibattito pubblico".
Aggiunge Piomboni: "Mi ero candidato a titolo personale perche' avevo intravisto un'iniziale volonta' dei rappresentanti fiorentini del Pd di portare sul tavolo di discussione provinciale, regionale e nazionale i temi della lotta contro l'omotransfobia, dell'estensione al matrimonio per le coppie omosessuali, di una regolamentazione equivalente al matrimonio per le coppie conviventi". Sembrava tirasse un'aria "diversa, di vera innovazione. Purtroppo mi sbagliavo". "Sono sempre piu' amareggiato dalle dichiarazioni omofobe, quantomai preoccupanti, di alcuni candidati del Partito Democratico, per ultime quelle del generale Del Vecchio, cosi' come sono stanco dei giri di parole e delle finte promesse, anche da parte di alcuni esponenti della politica locale".
Conclude la nota: "Mi auguro solo che le tante lesbiche e i tanti gay di questo Paese non commettano l'errore di credere nelle finte promesse, da qualunque parte esse arrivino".
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La Concia e Benedino specchietti gay per le allodole. "Consiglio di ritirarsi dal Pd anche altri, come ho fatto io".
(Dire) "Concia e Benedino ultimo specchietto per le 'allodole gay' del Pd", "ho il sospetto che Paola Concia e Andrea Benedino possono fare ormai ben poco per tutelare gli omosessuali persino all'interno del Pd, figuriamoci al governo del paese". Cosi' il presidente dell'Arcigay di Firenze (che oggi ha annunciatola sua separazione dal Pd) Francesco Piomboni, attacca Paola Concia portavoce del tavolo nazionale degli omosessuali del Partito democratico (Pd) e Andrea Benedino, portavoce nazionale Gayleft ai microfoni di Ecotv (Sky906).
"Sono deluso ed amareggiato di come il Partito democratico ha trattato e sta trattando la questione omosessuale- spiega Piomboni- personalmente sono stato usato dal Partito Democratico con finte promesse da parte di alcuni esponenti del partito. I miei sospetti- continua il presidente di Arcigay di Firenze- sono iniziati quando alcuni candidati che avevano precedentemente espresso dichiarazioni omofobiche, sono stati inseriti in posizioni eleggibili". È per questo, conclude Piomboni "che io e la mia associazione ci siamo tirati indietro e consigliamo ad altri di fare altrettanto
Veltroni a Omnibus su La7. Parla di confronti in Tv e dell'opinione della Binetti sui gay.
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VELTRONI: LA BINETTI ESPRIME SUA SINGOLA OPINIONE.
"In un grande partito è normale che ci siano più voci e Paola Binetti esprime la sua opinione ma è l'opinione di un singolo parlamentare mentre la novità è che se vinceremo ci sarà un solo gruppo parlamentare". Il leader del Pd, Walter Veltroni, replica così a Omnibus alle opinioni della senatrice Teodem sulle coppie di fatto e sui temi etici. Veltroni ribadisce che con i Cus "si è fatto un lavoro positivo importante che può essere una base di partenza condivisa" in parlamento e sostiene che sui temi eticamente sensibili "bisogna ispirarsi a livello parlamentare a costruire il punto di sintesi più avanzata". Quanto al fatto che i temi etici siano rimasti ai margini della campagna elettorale il segretario del Pd ritiene "un atto di responsabilità" che i partiti "non abbiano cercato di farne oggetto della sfida politica".
Dopo le elezioni via libera a Vendola leader, al posto del compagno Fausto.
Le ultime, recentissime, dichiarazioni del governatore pugliese non smentiscono affatto le sue ambizioni politiche sul suo futuro. Anzi, sembrano confermarle in toto: “Non mi tirerò indietro se la Sinistra arcobaleno, dopo il voto, aprirà una fase costituente”.
Decisione questa che sembra essere confermata dalle intenzioni del “compagno Fausto”. Da ormai diversi mesi, infatti, il candidato premier continua a ripetere di non essere “più disposto ad accettare ruoli istituzionali e di dirigenza di qualsiasi tipo”, preferendo continuare a “fare il semplice deputato”.
Ecco quindi che l’ipotesi Vendola potrebbe attuarsi sin dalla prima metà di maggio, anche se al momento i nodi decisivi sembrano altri. Primo tra tutti, il responso delle urne: se il nuovo rassemblement non supererà quota 8%, pare difficile che il processo di unificazione dei tre partiti subisca un’improvvisa accelerazione.
Per questo, proprio in qusti giorni, Vendola sembra legare la sua decisione a questo’ultimo cenario: “il problema non è di chi farà il leader ma piuttosto se il soggetto unitario della sinistra unita entrerà o meno in una fase costituente”. Resterà poi da capire cosa decideranno di fare Alfonso Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto. Anche perchè quest’ultimo, a differenza degli altri segretari, non ricoprirà alcun ruolo istituzionale nella prossima legislatura (nei giorni scorsi ha deciso di lasciare la propria poltrona di Palazzo Madama ad un operaio della Thyssen). A quel punto, la tregua armata tra Rifondazione e Comunisti Italiani potrebbe riesplodere. Ma stavolta per motivi assai diversi rispetto a quelli che portarono dieci anni fa Cossutta e compagni a separarsi dagli “amici-nemici” comunisti.
25 condannati nelle liste del Pdl - 10 nel Pd - ma anche D'alema non scherza: ecco la fedina penale.
Nella foto da sinistra Giorgio Napolitano, Massimo D'Alema e Piero Fassino.
(Temis) "Se li conosci li eviti" è il nuovo libro di Peter Gomez e Marco Travaglio (ed Chiarelettere, 14,60 euro). Un "manuale di pronto soccorso" per aiutare gli elettori a scegliere il meglio, o il meno peggio, tra le liste dei candidati, anzi dei parlamentari nominati dai partiti grazie al Porcellum. Il sottotitolo parla da sé: "Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, voltagabbana, fannulloni nel nuovo Parlamento". Gli "impresentabili" sono circa 150, di tutte le liste, scelti per categorie.
Quelli che hanno votato l'indulto. Quelli che hanno partecipato alla grande abbuffata della monnezza in Campania. Quelli che han comprato case nel centro di Roma a prezzi di box auto. E poi i voltagabbana, gli assenteisti cronici, i somari che ignorano persino la data della scoperta dell'America o della Rivoluzione francese. E poi quelli con la fedina penale sporca, o dubbia.
A farla da padrone è il Popolo delle libertà, che - se ha lasciato a casa i Pomicino, i Vito, i Biondi, gli Jannuzzi e i Mastella - ha rinnovato il repertorio con parecchie new entry per meriti penali. I condannati in primo o secondo o terzo del Pdl sono 25, più almeno altrettanti indagati o rinviati a giudizio, senza contare i miracolati dalla prescrizione.
L'Udc vanta almeno 5 condannati, fra provvisori e definitivi. La Destra 2 rinviati a giudizio, tra cui il suo leader Storace. L'Arcobaleno ha 2 condannati (Caruso e Farina), i Socialisti 1 (De Michelis). Anche il Pd, nonostante la promessa di Veltroni di non candidare nemmeno i condannati in primo grado, schiera due condannati definitivi, Enzo Carra e Antonino Papania (entrambi in Sicilia), un condannato in primo grado, uno in appello, cinque indagati (tutti fra la Calabria e la Basilicata), un rinviato a giudizio, tre salvati dalla prescrizione. Tra i quali Massimo D'Alema. Di cui pubblichiamo la scheda.
Anagrafe Nato a Roma il 20 aprile 1949.
Curriculum Diploma di maturità classica; giornalista; segretario regionale del Pci in Puglia; deputato dal 1987; vicesegretario del Pds, e poi segretario nel 1994; presidente della Bicamerale per la riforma della Costituzione nel 1997-98; presidente del Consiglio dal 1998 al 2000; vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri nel governo Prodi-2; 6 legislature (1987, 1992, 1994, 1996, 2001, 2006).
Soprannome Maxspezzaferro, Dalemòni (C. Rinaldi), Baffetto, Baffino, Baffo di Ferro, Dalemma (D. Luttazzi), Lìder Massimo, Volpe del Tavoliere, il Migliorino (E. Berselli), il Perdente.
Segni particolari Considerato il più intelligente e machiavellico dirigente della sinistra degli ultimi anni, non ha mai vinto una battaglia politica in vita sua. Nel gennaio 1996, mentre Prodi gira l'Italia con il pullmann dell'Ulivo, tenta di tagliargli la strada col primo inciucio con Berlusconi che dovrebbe rinviare sine die e spompare il Professore: il «governissimo» Maccanico per la Grande Riforma. Ma Fini e Prodi si mettono di traverso e si va alle elezioni, vinte da Prodi. Max non sopporta Romano, continua a ripetere che è stravagante questa premiership senza un partito alle spalle e va in visita a Mediaset («grande risorsa per il Paese»), per rassicurare Confalonieri e il Gabibbo che non hanno nulla da temere dai «comunisti».
Nel dicembre '96 s'inventa la Bicamerale, per riformare la Costituzione con Berlusconi. Pensa di «tenere per le palle» Berlusconi, racconta in giro che gli farà digerire il premierato e il doppio turno elettorale alla francese. Alla fine passa il presidenzialismo e il turno secco. In più c'è la magistratura sul piede di guerra per le bozze Boato. Berlusconi dopo due anni manda tutto all'aria, intanto l'Ulivo gliele ha date tutte vinte e il conflitto d'interessi non è stato risolto. Prodi cade nell'ottobre '98, D'Alema ha giurato fino al giorno prima che, se crolla al governo, si va alle elezioni.Invece accetta di prendere il posto del Professore, con i voti di Cossiga e Mastella ribaltonisti, in cambio dell'abiura ufficiale all'Ulivo. Pensa di inaugurare una Lunga Marcia dalemiana, invece fa appena in tempo a bombardare l'ex Jugoslavia con la Nato e contro l'Onu, e a consegnare la Telecom a una banda di avventurieri da lui promossi a «capitani coraggiosi» che la affogano nei debiti. Poi ci sono le elezioni regionali del 2000. Lui sbandiera sondaggi trionfali e investe nel voto tutto il prestigio del suo governo. Ma perde rovinosamente ed è costretto a dimettersi.
Nel 2001 Berlusconi, e ci mancherebbe, torna in carrozza a Palazzo Chigi, mentre Massimo - i cui fedelissimi hanno appena fatto colare a picco «l'Unità» dopo 70 anni di onorato servizio - fatica a vincere nel suo collegio di Gallipoli contro l'An Alfredo Mantovano (si dice che gli dia una mano Forza Italia). Critico feroce dei girotondi, cioè dell'unica opposizione credibile al regime berlusconiano, nel 2004 se ne va al Parlamento europeo, perché «è lì che si gioca la grande politica», ma nessuno se ne accorge e nel 2006 rientra precipitosamente a Montecitorio.
Non prima di aver patrocinato la scalata dell'Unipol alla Bnl, ovviamente fallita in una rovinosa inchiesta giudiziaria che rischia di travolgere l'intero movimento cooperativo. Per rivincere, l'Unione è costretta a richiamare in servizio l'odiato Prodi. D'Alema punta alla presidenza della Camera, ma passa Bertinotti. «Non entrerò nel governo», proclama sdegnato. E guarda voglioso al Quirinale, mandando avanti i suoi ad arruffianarsi i berluscones, al punto da chiedere i voti del Cavaliere a Dell'Utri e a Ferrara e da dirsi lusingato per l'appoggio di Cossiga, Pomicino, Feltri, Confalonieri, Rossella, Guzzanti (Paolo), Baget-Bozzo, Veneziani, Renato Farina...
Naturalmente anche la scalata al Colle fallisce miseramente e passa Napolitano. Max fa lo sdegnato e ribadisce che non entrerà nel governo: infatti, qualche giorno dopo, è vicepremier e ministro degli Esteri. A quel punto non gli resta che studiare da leader del Pd. Ma, sul più bello, gli piovono sul capo le intercettazioni Unipol. E allora è costretto a bere la cicuta, andando il 18 giugno 2007 dal nemico di sempre, Walter Veltroni, per offrirgli il nuovo partito su un piatto d'argento.
1994).
Berlusconi è il compare di Craxi (24 giugno 1994 ).
Caro Cavaliere, lei è come Ceausescu: anche lui, in Romania, controllava
tutte le tv, ah, ah! (2 agosto 1994 ).
Berlusconi mi ricorda Kim Il Sung (13 luglio 1994 ).
Berlusconi è la versione plebiscitaria del craxismo. Crollato il vecchio
regime, vuole garantirsi i vantaggi che prima gli assicurava il Caf (26
marzo 1994 ).
Craxi è il puparo di Berlusconi (30 settembre 1995).
FEDINA PENALE La prescrizione, alla quale non ha rinunciato, ha salvato D'Alema a Bari da un'accusa di finanziamento illecito dal boss delle cliniche Francesco Cavallari, legato alla Sacra corona unita; a Reggio Emilia è stata archiviata un'indagine a suo carico su fondi neri incamerati dal Pci-Pds; archiviata a Roma anche l'inchiesta per finaziamento illecito nata a Venezia, in cui D'Alema era indagato con Achille Occhetto e con Bettino Craxi; a Parma invece, dove Calisto Tanzi sosteneva di averlo finanziato con inserzioni pubblicitarie sulla rivista della sua fondazione Italianieuropei, D'Alema è rimasto un semplice testimone; infine la Procura di Milano sta ancora vagliando la sua posizione nell'ambito delle indagini sulle scalate bancarie.
È questa la fotografia della posizione giudiziaria di Massimo D'Alema, un leader incensurato che però, al pari di molti altri superstiti della Prima Repubblica, ha sicuramente intascato un finanziamento illegale. Almeno uno. Fu nel 1985, o giù di lì. Ma chi glielo versò, Francesco Cavallari, il re delle cliniche baresi, lo confessò soltanto nel 1994, quando il reato era prescritto da un anno. A quel punto, anche il Lìder Massimo poté ammetterlo davanti al giudice, a rischio zero. Il finanziamento non era granché: 20 milioni, dice Cavallari; qualcuno in meno, dice D'Alema.
Ma ciò che conta è la figura del finanziatore: D'Alema, allora segretario del Pci in Puglia e consigliere regionale, accettava inviti a cena e buste imbottite di denaro da un ras della sanità privata, titolare di una catena di cliniche con 4.000 dipendenti, poi arrestato nel '94 e condannato nel '96 con patteggiamento a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa, truffa e corruzione, per aver pagato politici di tutti i partiti (destra, centro e sinistra), giornalisti, sindacalisti e giudici, e soprattutto per i suoi rapporti con il clan Capriati (la cosca della Sacra corona unita che controllava militarmente e sanguinosamente Bari vecchia).
Ma, soprattutto, un personaggio dedito a pestaggi e spedizioni punitive contro sindacalisti della Cgil, «rei» di difendere i lavoratori dai soprusi della proprietà e di non arrendersi al «sindacato giallo» aziendale reclutato da elementi della criminalità organizzata.
Rivela Cavallari ai magistrati il 19 aprile 1994:
Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al Partito comunista. D'Alema è venuto a cena a casa mia e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale del 1985, che volevo dare un contributo al Pci.
D'Alema non fu nemmeno sfiorato dall'idea di rispettare la legge sul finanziamento dei partiti, registrando il «contributo» sul bilancio del Pci. Intascò in nero.
.......
Non si conoscono ancora invece le sorti di D'Alema a Milano,
dove i pm stanno chiudendo una serie di indagini collegate al tentativo di scalata alla Banca Nazionale del Lavoro, nella primaveraestate del 2005, da parte dell'Unipol di Giovanni Consorte. Dopo che il Parlamento ha rispedito al gip Clementina Forleo le telefonate intercettate tra D'Alema e Consorte, sostenendo di non poter dare l'autorizzazione al loro utilizzo perché al momento delle chiacchierate D'Alema era parlamentare europeo e non italiano, la giudice ha deciso di non girare alla Ue le trascrizioni. L'Europarlamento infatti non prevede alcun tipo di autorizzazione sulle «intercettazioni indirette» (il parlamentare parla con qualcuno il cui telefono è sotto controllo). E così l'intero fascicolo è stato trasmesso alla Procura, dove i magistrati dovranno decidere se iscrivere o meno D'Alema (e il fedelissimo Nicola Latorre) sul registro degli indagatiIn altre parole: nell'estate del 2005 tutti i giornali scrivevano che le scalate venivano condotte violando le leggi. C'erano state delle denunce da parte dei concorrenti e i media avevano pure spiegato come la legge italiana preveda che chi scala una società, una volta raggiunto il 30 per cento del capitale, sia obbligato a lanciare un'Opa (offerta pubblica di acquisto). Le norme, insomma, vietano le scalate occulte. Non si possono rastrellare titoli o farli acquistare da altri, mettendosi d'accordo per incamerarli una volta lanciata l'Opa a tutto scapito dei piccoli risparmiatori.
Eppure, dalle telefonate intercettate, emerge chiaramente che Consorte rivelò a D'Alema e Latorre le alleanze occulte che stava stringendo.
Il 6 luglio, per esempio, il numero uno di Unipol spiega al braccio destro di D'Alema tutti i particolari del piano ideato per conquistare segretamente il 51 per cento della Bnl e poi lanciare l'Opa a colpo sicuro. Consorte confessa infatti che una serie di azionisti Bnl (Caltagirone, Coppola, Ricucci, Statuto, Bonsignore) venderanno le loro azioni non direttamente a Unipol (che non ha i soldi per acquistarle), ma a banche o società intermediarie. E Latorre offre il suo appoggio e quello del suo capo per intervenire su Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore, editore nonché suocero di Casini, chiedendo se è necessario che D'Alema lo chiami.
Stefano Ricucci, uno degli azionisti di Bnl che cedette le proprie quote favorendo la scalata di Unipol, spiegherà ai magistrati che nei giorni della trattativa tutti i protagonisti riuniti negli uffici di Caltagirone erano in costante contatto con i rispettivi sponsor politici: Dotto', chi parlava con la Banca d'Italia con il governatore [Fazio, nda], chi con Francesco Frasca [capo della Vigilanza, nda], quell'altro parlava con Fassino, quell'altro ancora parlava... Era tutto un «ciao Piero», «ciao Massimo». Non è che per me non sia positivo. In fondo, quell'operazione è un vantaggio politico, una fusione politica: un concetto del genere l'accetto, è una cosa buona... Poi, scusi eh!, Consorte si compra Bnl con i suoi soldi. Ne aveva i mezzi, perché consideri che Unipol ha fatto un aumento di capitale di 2 miliardi e 6 di euro. Assolutamente sottoscritto, eh! (...). Che Unipol avesse avvertito prima e dopo e durante Fassino e D'Alema o quant'altro è pure giusto. Ma che, Caltagirone è il suocero di Casini e non l'avverte?
Scusa, eh! Parlavano al telefono sempre, lì davanti a me. Caltagirone parlava con il suo genero di assegni, era tutto pubblico, noi stavamo lì davanti a tutti...
ASSENZE 116 su 4875 (2,4%) missioni 4531 su 4875 (92,9%).
FRASE CELEBRE «Veltroni leader del Pd? Non finché io sono vivo...» (citato da Massimo Giannini, «la Repubblica», 27 giugno 2006 ).
Roberto Speciale: Cacciare i gay? No, sono più intelligenti.
«Basta con lo spionaggio fiscale, la lotta all’evasione non può essere il pozzo di San Patrizio per lo Stato».
(Amedeo La Mattina - La Stampa) Nella corte di un palazzo signorile di Città di Castello, sono arrivate una trentina di persone per un veloce buffet con il candidato del Popolo della libertà. C’è il capogruppo di An che lavora a Mediolanum, c’è una signora che esprime la sua solidarietà a Roberto Speciale per la «mascalzonata che gli hanno fatto i comunisti». Il generale sbuffa il fumo del sigaro. Un brindisi e poi tutti in cerchio ad ascoltarlo. «Voi conoscete la mia vicenda personale. Volevano comprare la mia dignità, ma non ci sono riusciti. Mi hanno messo tanta rabbia in corpo e da qualche parte devo scaricarla. Mi sono candidato, perché non succeda ad altri quello che è successo a me. Il Pdl rappresenta i valori ai quali sono stato educato dai salesiani».
Dio, Patria e Famiglia, ma anche legalità, sicurezza e impresa. L’ex Comandante della Guardia di Finanza ha una retorica di altri tempi. Parla a scatti, scandisce le parole, qualcuna se la mangia, abbassa il tono della voce, poi improvvisamente la alza come se parlasse alle truppe. Si muove già come un politico navigato. Del resto ha sempre avuto molto a che fare con i politici. Fino allo scontro finale con Vincenzo Visco e alla sua rimozione dall’incarico. Ora gioca nella squadra di Berlusconi che lo ha candidato in Umbria per «espugnare il fortino rosso». L’immagine del soldato scelto per una missione impossibile lo inorgoglisce. «Io qui sono venuto a combattere. La situazione è difficile, ma sono uno che non ha paura di nulla e di nessuno». Per la verità, il generale in Umbria è stato paracadutato, con la sicurezza di essere eletto. E’ vero che ha una nuora umbra e che queste colline gli ricordano la nativa Pietraperzia in provincia di Enna. Ma non ha nulla a che fare con l’Umbria. Con il fisco sì, però. Ed è questa una carta che si sta giocando alla grande con quelle categorie molto sensibili all’argomento. «Basta con lo spionaggio fiscale e il Grande Fratello occhiuto. Non puoi staccare un assegno che ti seguono per tutta la vita. Con Tremonti i soldi sono tornati dall’estero, con Visco sono scappati. Ora parlano del fantomatico tesoretto, che al massimo sarà di 1,8 miliardi. Ma questi soldi sono stati recuperati grazie a Berlusconi, Tremonti e al sottoscritto».
A Perugia lo grida alla Confapi. Lo ripete a Città di Castello ai commercianti dell’Alto Tevere. Qui, appena mette piede nella sede dell’associazione e si toglie il Ray-Ban scuro, il segretario dell’associazione ha quasi un brivido. E gli dice a bruciapelo: «Mi fa piacere vederla più in questa veste che in quella precedente...». L’ex capo della Finanza non si scompone: «Io stavo bene anche nelle vesti che avevo prima...». Poi lo rassicura. «Chi vi parla è figlio di artigiani e commercianti. Conosco bene il vostro mondo. Con Visco abbiamo subito avuto divergenze di vedute. Io volevo la pacificazione fiscale, ma mi è stato imposta l’oppressione fiscale. Nei vostri confronti c’è stato un pregiudizio inaccettabile. La lotta all’evasione non può essere il pozzo di San Patrizio dove prendere tutti i soldi che servono allo Stato». Ma allora, chiediamo per strada, questa montagna di evasione che contraddistingue l’Italia, come... Speciale fulmina il cronista: «Ma non è vero che è una montagna! Così come non è vero che Berlusconi giustifica chi evade. Ha detto che li capisce perché la pressione fiscale è iniqua. Il mio slogan è pagare meno, pagare tutti». Il suo refrain è che gli imprenditori sono dei «missionari»: «Il pistone dello sviluppo che deve essere messo in grado di stantuffare». A Sulci Lama, mentre in fabbrica le saldatrici scoppiettano sull’acciaio, il titolare della «Nardi-macchine agricole» lamenta la perdita del Tfr dei lavoratori. E Speciale: «Per voi era ossigeno. Vi ha messo nelle mani delle banche».
Si corre da una parte all’altra dell’Umbria. Infine, davanti ad un caffè, sondiamo cosa vuole in politica. Magari il ministro. «Non dipende da me. Io metto a disposizione la mia competenza in materia di difesa e sicurezza». Insomma, ministro della Difesa o dell’Interno. «Non pretendo niente. Se poi qualcuno mi vorrà gratificare, io, da soldato, obbedisco». Si capisce che preferirebbe il Viminale: legalità e sicurezza. «Ci vuole un presidio stringente nel territorio. Non ci devono essere zone franche». Tolleranza zero. «Tolleranza sotto zero». Anche con gli immigrati, ovviamente. «Serve qualcosa di più della Bossi-Fini». Senta, ci spiega la storia delle spigole che ha portato in montagna e dei voli fatti con gli Atr-42 della Guardia di Finanza? La Procura militare della Corte dei Conti le ha chiesto il rimborso di 3.885 euro per ogni ora di volo. «Ho la coscienza a posto. Rimane ferma la mia incondizionata fiducia nella magistratura che non ha preso ancora nessuna decisione. La Corte dei Conti mi ha chiesto una memoria difensiva, cosa che ho già fatto. Per quanto riguarda le spigole: erano un regalo, che ho pagato di tasca mia, agli uomini e alle donne della scuola alpina della Guardia di Finanza. Non ne ho assaggiata nemmeno una». Una stretta di mano virile. Si raccomanda di non metterlo nei guai come è capitato al generale Del Vecchio (candidato del Pd) con la storia dei gay. Già, anche lei li caccerebbe dall’esercito? «Ma non ci penso neppure. Ho troppa rispetto per le persone, anche per la loro diversità. Un gay potrebbe essere un ottimo combattente. Io ne ho avuti durante il mio periodo di comando ed era gente che sapeva stare al suo posto, fare il proprio dovere. Anzi avevano un pizzico di intelligenza in più. Ma la famiglia deve essere fatta da un maschio e da una donna, auspicabilmente benedetta da Dio con un matrimonio cattolico». Certo. Arrivederci.
La doppia faccia del Partito democratico.
Binetti si schiera contro le coppie gay - Veltroni si rivela «possibilista» sulle coppie di fatto in un'intervista a "El Mundo" ma in Italia scoppia la bagarre tra i suoi.
(Stefano Bocconetti - Liberazione) L'ex senatrice e prossima parlamentare democratica (è terza nella lista della "Lombardia 2" alla Camera, dove, chissà perché, sono tutti convinti che potrà fare "meno danni"), Binetti, insomma, è ormai un fenomeno che appartiene più al folklore che alla politica. Lo sostengono anche gli uomini dello staff di Veltroni, che così liquidano il problema. «Non conta nulla», spiegano.
Ma il problema c'è, esiste. Anche perché - ammesso che il metro di giudizio sia quello del «peso politico» - se Binetti è marginale, o quasi, nel partito, ben altro ruolo ha una figura come Giorgio Tonini. In gioventù presidente della Fuci, poi nella Presidenza delle Acli, è maturato fra le fila della Cisl. Ora è il «consigliere» politico più ascoltato da Veltroni. Gli scrive i discorsi, lo segue, tratta a suo nome. Una sorta di Bettini per il Nord, dice chi lo conosce. E sui temi eticamente sensibili, sui diritti civili è uno di quelli che più frenano nel partito democratico. Non ha l'effervescenza sanfedista di Binetti, ma, insomma, siamo da quelle parti.
Veltroni l'ha cercato e l'ha scelto. Convinto che la logica del «ma anche» avrebbe funzionato anche su questi argomenti. Ci sarebbe stato lui, disposto a parlare - sui giornali stranieri - di laicità, in Italia ci sarebbe stato Giorgio Tonini, a fare da ponte con le posizioni delle gerarche vaticane.
Non ha funzionato. Non poteva funzionare, dicono in molti, comunque in questo caso la strategia del «taccio per non scegliere» s'è rivelata disastrosa. Perché un giorno c'è il generale Del Vecchio che non vuole gli omosessuali fra i soldati - per i quali, invece, progetta case chiuse per aiutare le missioni all'estero -, il giorno dopo c'è l'apertura veltroniana concessa solo ai lettori spagnoli e subito dopo l'ennesima sortita di Binetti. E via proseguendo.
Loro, i democratici, sono comunque ancora convinti che si possa fare. Che si possa continuare così. Se si chiede a qualcuno nel loft di piazza Sant'Anastasia ti rispondono che su «questi argomenti, sui temi eticamente sensibili, è più che legittimo avere una pluralità di posizioni». Come se la questione fosse il «punto di partenza», le scelte - politiche, culturali, filosofiche - di ciascuno. Come se la questione non fosse, invece, nell'approdo a cui quella discussione dovrebbe portare. Un terreno dove il «ma anche» di Veltroni si sfascia completamente: come se fosse possibile mettere assieme una visione laica - che garantisce tutti - e una visione clericale. Fatta di imposizioni per chi la pensi diversamente.
Qualcuno, anche in casa dei democratici, comincia ad accorgersene. Paola Concia, per esempio, pure lei candidata piddì in Puglia. Che comunque non riesce ad andare oltre alla denuncia sull'intolleranza che anima i teodem. «I candidati democratici devono smettere di spararla grossa a danno di gay e lesbiche solo per farsi pubblicità». Tutto il resto - le «non scelte» del partito, l'ambiguità su alcuni obiettivi che di fatto aprono le porte alla delega da parte della politica, in questo caso al Vaticano - restano sullo sfondo.
E tutto ciò provoca confusione su confusione. Come il commento di Piero Fassino, l'ex segretario dei diesse, poi incaricato di seguire la vicende dei monaci birmani per conto dell'Europa, senza molta fortuna. Ieri, Fassino, mentre montava la polemica nelle fila del suo partito, ha pensato bene di uscirsene con questa frase: «La questione delle coppie di fatto e più in generale i temi eticamente sensibili non vanno usati come una clava per fare crociate o guerre di religione». Di più, di più pericoloso: «Così si alimenta solo un integralismo contro un altro integralismo».
L'ex segretario della Quercia non spiega di più, non definisce nel dettaglio quali siano questi due «integralismi» che da decenni - dice proprio così - si sfidano nell'agone della politica italiana. Li dà per scontati. Mettendo sullo stesso piano Binetti e Giuliano Ferrara, che cita esplicitamente, assieme a chi, in questi tempi oscuri, ha continuato a difendere la laicità dello Sato. Ha continuato a difendere i diritti delle persone, la scuola statale, un insegnamento che eserciti alla critica. Eccetera, eccetera. Per Fassino sono due "integralismi" contrapposti. Uguali.
La replica, per esempio quella di Patrizia Sentinelli, oggi viceministra degli Esteri e candidata a fare il vicesindaco a Roma, è piuttosto semplice. «Dico a Fassino che se teme l'integralismo è nel suo partito che deve cercare».
Integralismo. Al singolare. Integralismo filosofico-culturale, politico che si sposa con l'accettazione dell'esistente su tutto il resto. Integralismo che si sposa con una visione dell'economia che nella lettura di Veltroni sembrerebbe ispirata da «leggi naturali». E per questo immodificabili. Integralismo e neoliberismo, insomma. Non si può fare.