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sabato 5 aprile 2008

25 condannati nelle liste del Pdl - 10 nel Pd - ma anche D'alema non scherza: ecco la fedina penale.

Nella foto da sinistra Giorgio Napolitano, Massimo D'Alema e Piero Fassino.

(Temis) "Se li conosci li eviti" è il nuovo libro di Peter Gomez e Marco Travaglio (ed Chiarelettere, 14,60 euro). Un "manuale di pronto soccorso" per aiutare gli elettori a scegliere il meglio, o il meno peggio, tra le liste dei candidati, anzi dei parlamentari nominati dai partiti grazie al Porcellum. Il sottotitolo parla da sé: "Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, voltagabbana, fannulloni nel nuovo Parlamento". Gli "impresentabili" sono circa 150, di tutte le liste, scelti per categorie.

Quelli che hanno votato l'indulto. Quelli che hanno partecipato alla grande abbuffata della monnezza in Campania. Quelli che han comprato case nel centro di Roma a prezzi di box auto. E poi i voltagabbana, gli assenteisti cronici, i somari che ignorano persino la data della scoperta dell'America o della Rivoluzione francese. E poi quelli con la fedina penale sporca, o dubbia.

A farla da padrone è il Popolo delle libertà, che - se ha lasciato a casa i Pomicino, i Vito, i Biondi, gli Jannuzzi e i Mastella - ha rinnovato il repertorio con parecchie new entry per meriti penali. I condannati in primo o secondo o terzo del Pdl sono 25, più almeno altrettanti indagati o rinviati a giudizio, senza contare i miracolati dalla prescrizione.

L'Udc vanta almeno 5 condannati, fra provvisori e definitivi. La Destra 2 rinviati a giudizio, tra cui il suo leader Storace. L'Arcobaleno ha 2 condannati (Caruso e Farina), i Socialisti 1 (De Michelis). Anche il Pd, nonostante la promessa di Veltroni di non candidare nemmeno i condannati in primo grado, schiera due condannati definitivi, Enzo Carra e Antonino Papania (entrambi in Sicilia), un condannato in primo grado, uno in appello, cinque indagati (tutti fra la Calabria e la Basilicata), un rinviato a giudizio, tre salvati dalla prescrizione. Tra i quali Massimo D'Alema. Di cui pubblichiamo la scheda.

Anagrafe Nato a Roma il 20 aprile 1949.
Curriculum Diploma di maturità classica; giornalista; segretario regionale del Pci in Puglia; deputato dal 1987; vicesegretario del Pds, e poi segretario nel 1994; presidente della Bicamerale per la riforma della Costituzione nel 1997-98; presidente del Consiglio dal 1998 al 2000; vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri nel governo Prodi-2; 6 legislature (1987, 1992, 1994, 1996, 2001, 2006).
Soprannome Maxspezzaferro, Dalemòni (C. Rinaldi), Baffetto, Baffino, Baffo di Ferro, Dalemma (D. Luttazzi), Lìder Massimo, Volpe del Tavoliere, il Migliorino (E. Berselli), il Perdente.

Segni particolari Considerato il più intelligente e machiavellico dirigente della sinistra degli ultimi anni, non ha mai vinto una battaglia politica in vita sua. Nel gennaio 1996, mentre Prodi gira l'Italia con il pullmann dell'Ulivo, tenta di tagliargli la strada col primo inciucio con Berlusconi che dovrebbe rinviare sine die e spompare il Professore: il «governissimo» Maccanico per la Grande Riforma. Ma Fini e Prodi si mettono di traverso e si va alle elezioni, vinte da Prodi. Max non sopporta Romano, continua a ripetere che è stravagante questa premiership senza un partito alle spalle e va in visita a Mediaset («grande risorsa per il Paese»), per rassicurare Confalonieri e il Gabibbo che non hanno nulla da temere dai «comunisti».

Nel dicembre '96 s'inventa la Bicamerale, per riformare la Costituzione con Berlusconi. Pensa di «tenere per le palle» Berlusconi, racconta in giro che gli farà digerire il premierato e il doppio turno elettorale alla francese. Alla fine passa il presidenzialismo e il turno secco. In più c'è la magistratura sul piede di guerra per le bozze Boato. Berlusconi dopo due anni manda tutto all'aria, intanto l'Ulivo gliele ha date tutte vinte e il conflitto d'interessi non è stato risolto. Prodi cade nell'ottobre '98, D'Alema ha giurato fino al giorno prima che, se crolla al governo, si va alle elezioni.Invece accetta di prendere il posto del Professore, con i voti di Cossiga e Mastella ribaltonisti, in cambio dell'abiura ufficiale all'Ulivo. Pensa di inaugurare una Lunga Marcia dalemiana, invece fa appena in tempo a bombardare l'ex Jugoslavia con la Nato e contro l'Onu, e a consegnare la Telecom a una banda di avventurieri da lui promossi a «capitani coraggiosi» che la affogano nei debiti. Poi ci sono le elezioni regionali del 2000. Lui sbandiera sondaggi trionfali e investe nel voto tutto il prestigio del suo governo. Ma perde rovinosamente ed è costretto a dimettersi.

Nel 2001 Berlusconi, e ci mancherebbe, torna in carrozza a Palazzo Chigi, mentre Massimo - i cui fedelissimi hanno appena fatto colare a picco «l'Unità» dopo 70 anni di onorato servizio - fatica a vincere nel suo collegio di Gallipoli contro l'An Alfredo Mantovano (si dice che gli dia una mano Forza Italia). Critico feroce dei girotondi, cioè dell'unica opposizione credibile al regime berlusconiano, nel 2004 se ne va al Parlamento europeo, perché «è lì che si gioca la grande politica», ma nessuno se ne accorge e nel 2006 rientra precipitosamente a Montecitorio.

Non prima di aver patrocinato la scalata dell'Unipol alla Bnl, ovviamente fallita in una rovinosa inchiesta giudiziaria che rischia di travolgere l'intero movimento cooperativo. Per rivincere, l'Unione è costretta a richiamare in servizio l'odiato Prodi. D'Alema punta alla presidenza della Camera, ma passa Bertinotti. «Non entrerò nel governo», proclama sdegnato. E guarda voglioso al Quirinale, mandando avanti i suoi ad arruffianarsi i berluscones, al punto da chiedere i voti del Cavaliere a Dell'Utri e a Ferrara e da dirsi lusingato per l'appoggio di Cossiga, Pomicino, Feltri, Confalonieri, Rossella, Guzzanti (Paolo), Baget-Bozzo, Veneziani, Renato Farina...

Naturalmente anche la scalata al Colle fallisce miseramente e passa Napolitano. Max fa lo sdegnato e ribadisce che non entrerà nel governo: infatti, qualche giorno dopo, è vicepremier e ministro degli Esteri. A quel punto non gli resta che studiare da leader del Pd. Ma, sul più bello, gli piovono sul capo le intercettazioni Unipol. E allora è costretto a bere la cicuta, andando il 18 giugno 2007 dal nemico di sempre, Walter Veltroni, per offrirgli il nuovo partito su un piatto d'argento.

Oltre a questa collezione di fiaschi da far impallidire una cantina sociale, Massimo D'Alema presenta un altro segno particolare: è un voltagabbana da Guinness. Anzitutto, su Berlusconi: Berlusconi parla con la sua tipica mentalità totalitaria (10 settembre
1994).
Berlusconi è il compare di Craxi (24 giugno 1994 ).
Caro Cavaliere, lei è come Ceausescu: anche lui, in Romania, controllava
tutte le tv, ah, ah! (2 agosto 1994 ).
Berlusconi mi ricorda Kim Il Sung (13 luglio 1994 ).
Berlusconi è la versione plebiscitaria del craxismo. Crollato il vecchio
regime, vuole garantirsi i vantaggi che prima gli assicurava il Caf (26
marzo 1994 ).
Craxi è il puparo di Berlusconi (30 settembre 1995).

FEDINA PENALE La prescrizione, alla quale non ha rinunciato, ha salvato D'Alema a Bari da un'accusa di finanziamento illecito dal boss delle cliniche Francesco Cavallari, legato alla Sacra corona unita; a Reggio Emilia è stata archiviata un'indagine a suo carico su fondi neri incamerati dal Pci-Pds; archiviata a Roma anche l'inchiesta per finaziamento illecito nata a Venezia, in cui D'Alema era indagato con Achille Occhetto e con Bettino Craxi; a Parma invece, dove Calisto Tanzi sosteneva di averlo finanziato con inserzioni pubblicitarie sulla rivista della sua fondazione Italianieuropei, D'Alema è rimasto un semplice testimone; infine la Procura di Milano sta ancora vagliando la sua posizione nell'ambito delle indagini sulle scalate bancarie.

È questa la fotografia della posizione giudiziaria di Massimo D'Alema, un leader incensurato che però, al pari di molti altri superstiti della Prima Repubblica, ha sicuramente intascato un finanziamento illegale. Almeno uno. Fu nel 1985, o giù di lì. Ma chi glielo versò, Francesco Cavallari, il re delle cliniche baresi, lo confessò soltanto nel 1994, quando il reato era prescritto da un anno. A quel punto, anche il Lìder Massimo poté ammetterlo davanti al giudice, a rischio zero. Il finanziamento non era granché: 20 milioni, dice Cavallari; qualcuno in meno, dice D'Alema.

Ma ciò che conta è la figura del finanziatore: D'Alema, allora segretario del Pci in Puglia e consigliere regionale, accettava inviti a cena e buste imbottite di denaro da un ras della sanità privata, titolare di una catena di cliniche con 4.000 dipendenti, poi arrestato nel '94 e condannato nel '96 con patteggiamento a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa, truffa e corruzione, per aver pagato politici di tutti i partiti (destra, centro e sinistra), giornalisti, sindacalisti e giudici, e soprattutto per i suoi rapporti con il clan Capriati (la cosca della Sacra corona unita che controllava militarmente e sanguinosamente Bari vecchia).

Ma, soprattutto, un personaggio dedito a pestaggi e spedizioni punitive contro sindacalisti della Cgil, «rei» di difendere i lavoratori dai soprusi della proprietà e di non arrendersi al «sindacato giallo» aziendale reclutato da elementi della criminalità organizzata.

Rivela Cavallari ai magistrati il 19 aprile 1994:
Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al Partito comunista. D'Alema è venuto a cena a casa mia e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale del 1985, che volevo dare un contributo al Pci.
D'Alema non fu nemmeno sfiorato dall'idea di rispettare la legge sul finanziamento dei partiti, registrando il «contributo» sul bilancio del Pci. Intascò in nero.
.......
Non si conoscono ancora invece le sorti di D'Alema a Milano,
dove i pm stanno chiudendo una serie di indagini collegate al tentativo di scalata alla Banca Nazionale del Lavoro, nella primaveraestate del 2005, da parte dell'Unipol di Giovanni Consorte. Dopo che il Parlamento ha rispedito al gip Clementina Forleo le telefonate intercettate tra D'Alema e Consorte, sostenendo di non poter dare l'autorizzazione al loro utilizzo perché al momento delle chiacchierate D'Alema era parlamentare europeo e non italiano, la giudice ha deciso di non girare alla Ue le trascrizioni. L'Europarlamento infatti non prevede alcun tipo di autorizzazione sulle «intercettazioni indirette» (il parlamentare parla con qualcuno il cui telefono è sotto controllo). E così l'intero fascicolo è stato trasmesso alla Procura, dove i magistrati dovranno decidere se iscrivere o meno D'Alema (e il fedelissimo Nicola Latorre) sul registro degli indagatiIn altre parole: nell'estate del 2005 tutti i giornali scrivevano che le scalate venivano condotte violando le leggi. C'erano state delle denunce da parte dei concorrenti e i media avevano pure spiegato come la legge italiana preveda che chi scala una società, una volta raggiunto il 30 per cento del capitale, sia obbligato a lanciare un'Opa (offerta pubblica di acquisto). Le norme, insomma, vietano le scalate occulte. Non si possono rastrellare titoli o farli acquistare da altri, mettendosi d'accordo per incamerarli una volta lanciata l'Opa a tutto scapito dei piccoli risparmiatori.

Eppure, dalle telefonate intercettate, emerge chiaramente che Consorte rivelò a D'Alema e Latorre le alleanze occulte che stava stringendo.
Il 6 luglio, per esempio, il numero uno di Unipol spiega al braccio destro di D'Alema tutti i particolari del piano ideato per conquistare segretamente il 51 per cento della Bnl e poi lanciare l'Opa a colpo sicuro. Consorte confessa infatti che una serie di azionisti Bnl (Caltagirone, Coppola, Ricucci, Statuto, Bonsignore) venderanno le loro azioni non direttamente a Unipol (che non ha i soldi per acquistarle), ma a banche o società intermediarie. E Latorre offre il suo appoggio e quello del suo capo per intervenire su Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore, editore nonché suocero di Casini, chiedendo se è necessario che D'Alema lo chiami.
Stefano Ricucci, uno degli azionisti di Bnl che cedette le proprie quote favorendo la scalata di Unipol, spiegherà ai magistrati che nei giorni della trattativa tutti i protagonisti riuniti negli uffici di Caltagirone erano in costante contatto con i rispettivi sponsor politici: Dotto', chi parlava con la Banca d'Italia con il governatore [Fazio, nda], chi con Francesco Frasca [capo della Vigilanza, nda], quell'altro parlava con Fassino, quell'altro ancora parlava... Era tutto un «ciao Piero», «ciao Massimo». Non è che per me non sia positivo. In fondo, quell'operazione è un vantaggio politico, una fusione politica: un concetto del genere l'accetto, è una cosa buona... Poi, scusi eh!, Consorte si compra Bnl con i suoi soldi. Ne aveva i mezzi, perché consideri che Unipol ha fatto un aumento di capitale di 2 miliardi e 6 di euro. Assolutamente sottoscritto, eh! (...). Che Unipol avesse avvertito prima e dopo e durante Fassino e D'Alema o quant'altro è pure giusto. Ma che, Caltagirone è il suocero di Casini e non l'avverte?
Scusa, eh! Parlavano al telefono sempre, lì davanti a me. Caltagirone parlava con il suo genero di assegni, era tutto pubblico, noi stavamo lì davanti a tutti...

ASSENZE 116 su 4875 (2,4%) missioni 4531 su 4875 (92,9%).

FRASE CELEBRE «Veltroni leader del Pd? Non finché io sono vivo...» (citato da Massimo Giannini, «la Repubblica», 27 giugno 2006 ).

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