(Stefano Di Michele - Il Foglio) C’è voluto niente – oddio, proprio niente no: una disfatta elettorale – per passare, nei più colti cenacoli dopocena, nelle apposite librerie de’ sinistra (Roma chiacchierona) dall’invidia del pene all’invidia – l’ambito è più o meno contiguo – del celodurismo. Se quelli di Bossi non ci stanno attenti, facile ritrovarsi la prossima estate con tutti gli sbandati della Sinistra arcobaleno accampati nel pratone di Pontida, come una volta dalle parti dell’Avana quando si andava a tagliare la canna da zucchero. Perché qui non è solo questione di analisi politologica, dell’abbandono da parte degli operai (non decentemente bilanciato dal concorso delle bertinottiane principesse in lacrime, secondo dettagliato resoconto di Mario D’Urso), dei tre milioni di voti squagliati via che altro che buco dell’ozono, piuttosto il buco nell’arcobaleno. Davvero, ma non è soltanto questo. Ora che tanti rivoluzionari vogliono andare a prendere lezioni da Maroni anziché da Marcos, svernare in Val Brembana piuttosto che nella Selva Lacandona, quello che si coglie è uno scoramento diverso – umano, prima che politico. Lo ha ben raccontato su Repubblica Dario Vergassola, il comico che alla chiusura della campagna elettorale stava sul palco a far compagnia a Bertinotti. Il compagno Vergassola – che pure ha dato alle stampe un libro garbatamente intitolato “Me la darebbe?”: un rivoluzionario ha gli ormoni, ma pure buona educazione – ha spiegato la pena che si vive a sinistra come paccate di analisi socio-politiche non avevano finora fatto. “Quello che invidio ora è la gioia dei leghisti che s’incontrano al bar consapevoli di avere qualcosa in comune, mi ricorda l’animo e il sapore delle feste dell’Unità di trent’anni fa. E’ un entusiasmo che non riesci a smorzare e può essere solo vincente”. Ecco: la straziante sensazione della piadina che si vota alla causa padana, della salsiccia che si fa federalista, delle corna di Vercingetorige che sostituiscono il basco guevarista. Già le ultime feste dell’Unità erano state ribattezzate Democratic party, adesso la tristezza stringe la gola, e costringe ad aspettarsi, come fa sapere Vergassola, di tutto: persino la Casa del popolo che si fa Casa del popolo padano. Tra poco, i leghisti non sapranno più dove accampare gli ex rivoltosi in processione dalle loro parti, gli ammiratori di recente conio, i nuovi cittadini onorari di Gemonio. Lo ha detto a brutto muso, a quelli che insistono con l’antica iconografia, il compagno Francesco Guccini, che ha cantato i tempi belli con l’Unità in tasca (i più arditi) e che ora potrebbe agli ultimi scampoli della Sinistra raccomandare un’altra sua canzone, quella che “non siamo, non siamo, non siamo…”. A Diliberto e soci ha spiegato: “Agli operai, di falce e martello non gliene frega più niente… Anche gli operai della Fiom hanno votato per la Lega”. E così, la famosa avanguardia, presa alla sprovvista e presi pochi voti, si fa intendenza, segue la classe di riferimento ove la classe di riferimento va, non avendo voluto seguire il supposto partito di riferimento. Così, sul modello Lega, è tutto un saggio interrogarsi, da Luca Casarini a Marco Revelli, dal Manifesto a Liberazione. Ma meglio dice, di quel nodo in gola, il più saggio di tutti, il compagno Vergassola: “E’ come quando finisce un amore. E’ ancora presto, devo ancora elaborare il lutto”. Ma con urgenza e senza dibattito, ché altri lutti già si profilano all’orizzonte.
mercoledì 23 aprile 2008
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